MILANO – Bruno Pizzul non fu solo un telecronista, ma la voce stessa del calcio italiano. Uomo di tono pacato e lessico forbito, entrava nelle case con quella dizione perfetta, mai sopra le righe, e con la naturalezza di chi il pallone l’aveva vissuto prima in campo e poi in cabina di commento. Le sue telecronache erano un rito per l’italiano medio, quel tifoso che accendeva la TV la sera e si preparava al racconto misurato e signorile del friulano dall’eleganza innata.
Fu lui a darci le “notti magiche” di Italia ‘90, a soffrire con quel maledetto rigore di Pasadena nel 1994, a esultare con quel “Robertobaggioooo” che ancora rimbomba nella memoria collettiva. Dal 1986 al 2002, Pizzul raccontò la Nazionale con un equilibrio raro, mai sopra le righe, mai travolto dall’enfasi. Cinque Mondiali, quattro Europei, qualificazioni infinite. Poi l’ultima telecronaca, un’amichevole incolore contro la Slovenia nel 2002.
Friulano come una radice piantata nella terra, il giovane Bruno giocava centromediano metodista, ruolo austero, di quelli che in campo dettano legge senza bisogno di fronzoli. Dalla parrocchia di Cormons al professionismo con il Catania, poi Udinese, Ischia, Sassari Torres. Laureato in giurisprudenza, per un po’ insegnò nelle scuole medie, poi il destino lo condusse in Rai.
Esordì con un ritardo degno di un poeta distratto: era l’8 aprile 1970, Juventus-Bologna, spareggio di Coppa Italia. Arrivò in ritardo e iniziò a raccontare dal 16° minuto. Nel ‘72 la sua prima finale internazionale, l’Europeo della Germania Ovest. Nel ‘73 la Coppa delle Coppe del Milan. Nel 1985 fu la voce della tragica notte dell’Heysel, che avrebbe volentieri dimenticato. Poi gli ultimi acuti: Lazio e Parma sul tetto d’Europa nel 1999.
Pizzul non urlava, non faceva teatrino, non aveva bisogno di iperboli. Il suo era il calcio raccontato come si fa con un vecchio amico, davanti a un bicchiere di rosso. Il suo addio lascia un vuoto, come quello di un centromediano che esce dal campo e nessuno sa con chi sostituirlo.