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Calcio italiano, terra di conquista: l’invasione barbarica degli stranieri

15 febbraio 2025 | 08:20
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Calcio italiano, terra di conquista: l’invasione barbarica degli stranieri

Dove sono i Rivera, i Riva, i Mazzola? Che fine hanno fatto i Baresi, i Maldini, i Totti?

MILANO –  Un tempo era feudo italico, riserva aurea di talenti forgiati all’ombra di campanili rissosi e santi protettori, sudati nei polverosi oratori e temprati su campetti spelacchiati. Oggi il calcio italiano è terra di conquista, preda di mercanti erranti, di faccendieri dalla parlantina oleosa, di avventurieri dal pastrano esotico e dal pedigree dubbio. È la rovina di un’arte che un tempo fu nostro vanto e che oggi marcisce sotto il peso di un’invasione senza controllo.

Un tempo i nostri ragazzini giocavano a pallone sino a scorticarsi le ginocchia sull’asfalto delle periferie, inseguendo il sogno d’una domenica in Serie A. Oggi li vediamo scartati, relegati ai margini, soppiantati da torme di stranieri dai nomi impronunciabili e dai curricula gonfiati da agenti senza scrupoli. Le primavere dei nostri club, un tempo fucina di talenti genuini, brulicano di giovanotti venuti da ogni dove, pescati chissà come e chissà perché. A loro si aprono porte dorate, mentre i nostri giovani apprendisti restano a mendicare un’occasione, spesso costretti a peregrinare in categorie minori o ad abbandonare il sogno per un lavoro più sicuro.

Dove sono i Rivera, i Riva, i Mazzola? Che fine hanno fatto i Baresi, i Maldini, i Totti? Oggi, se un italiano ha la ventura di esordire, lo si guarda come un fenomeno da baraccone, un relitto d’altri tempi. E se osa sbagliare una partita, viene rispedito nei ranghi, scalzato da un qualche mestierante d’importazione. La scusa è sempre la stessa: costano meno, sono già pronti, hanno esperienza. Ma di quale esperienza si parla? Di quale valore tecnico si fregiano? Troppo spesso sono comparse, utili pedine di un mercato che nulla ha a che vedere con il merito sportivo.

gigi riva

E così, mentre le nostre Nazionali arrancano, mentre i nostri vivai languono, mentre il nostro calcio sprofonda in un anonimato sempre più squallido, i presidenti brindano ai ricchi affari dei procuratori, i tifosi si abituano a formazioni senza anima, le curve esultano per gol segnati da chi magari, domani, vestirà un’altra maglia senza battere ciglio.

Il calcio italiano è stato venduto, svenduto, svilito. L’invasione è compiuta e noi, anziché difenderci, abbiamo aperto le porte e consegnato le chiavi della nostra storia. E forse, ormai, è troppo tardi per tornare indietro.

La sentenza Bosman: il calcio italiano alla gogna del mercato globale

Fu il giorno in cui il calcio smise d’essere poesia e divenne mero esercizio di finanza. Il giorno in cui la legge del talento cedette il passo a quella del mercato, e il nostro football, un tempo fiero e sovrano, si trasformò in terra di saccheggio per mercenari erranti e agenti spregiudicati. La sentenza Bosman, quel verdetto emesso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel 1995, doveva sancire la libertà dei calciatori: ha finito invece per asservire il gioco al più sfrenato consumismo, devastando i vivai e condannando il calcio italiano a una lenta e inesorabile decadenza.

Prima di Bosman, il nostro calcio era aristocratico e selettivo, attento al proprio patrimonio tecnico e fedele a una sacra legge non scritta: gli stranieri dovevano essere pochi, ma eccelsi. Si accoglieva il fuoriclasse, lo straniero d’arte: il Maradona che nobilitava il Napoli, il Platini che innalzava la Juventus, il Van Basten che trasformava il Milan in un’orchestra sinfonica. Con la sentenza, il meccanismo s’inceppò: la libera circolazione divenne un’orda barbarica, gli stranieri dilagarono come cavallette affamate, e l’identità del calcio italiano si sbriciolò sotto il peso dell’importazione incontrollata.

Stadio San Paolo Napoli

D’improvviso, i settori giovanili diventarono terreni sterili, i giovani talenti di casa nostra finivano relegati ai margini, privati del tempo e dello spazio per sbocciare. Perché crescere un Maldini o un Del Piero, quando il mercato offriva a poco prezzo mestieranti dall’Est, manovali sudamericani, corrieri del pallone di dubbia qualità ma facili da comprare e rivendere? Il concetto stesso di appartenenza sbiadì: le squadre divennero accampamenti nomadi, le bandiere si fecero rare, il calcio si trasformò in un’anonima giostra di plusvalenze.

E così, mentre il nostro campionato perdeva identità, la Nazionale ne pagava il prezzo più alto. Svanirono le generazioni d’oro, si affievolì il fuoco sacro che aveva reso gli Azzurri temibili in ogni angolo del pianeta. Il talento autoctono si diradò come nebbia al mattino, le formazioni di Serie A si riempirono di nomi sconosciuti, di figuranti buoni per i tabellini ma privi d’anima, incapaci di incarnare la nobiltà calcistica che aveva fatto grande il Belpaese.

Bosman ha regalato libertà ai calciatori, ma ha tolto anima al calcio. E noi, figli di un’epoca che non conosce più i Rivera, i Baggio, i Totti, restiamo a guardare, impotenti, mentre il nostro sport più bello si dissolve in un mercato senza radici né cuore.