“Nel cuore dello sport”, Fabrizio J. Fustinoni incontra Massimiliano Andreani

Nuovo appuntamento con lo scrittore legnanese Fabrizio J. Fustinoni, per conoscere il lato più umano dello sport
LEGNANO – Siamo arrivati al sesto appuntamento di “Nel cuore dello sport“, con lo scrittore legnanese Fabrizio J. Fustinoni che questa una volta accompagna i lettori di Sport Legnano a conoscere la storia di un nostro concittadino, Massimiliano Andreani, Maestro di karate goju ryu di Okinawa e istruttore di sport chanbara, spadagiapponese e kobudo. Un’altra storia emozionante, oltre l’agonismo e la competizione, che ci porta alla scoperta di un pianeta privato fatto di esperienze spesso drammatiche e dolorose che sono state affrontate e superate proprio attraverso il potere e la forza d’animo che solo lo sport può regalare, e che ci porterà a scoprire il lato più intimo dello sport preferito dei personaggi che ogni mese incontreremo: la Vita.
In un momento epocale, non solo per l’Italia ma per il mondo intero, in cui la pandemia del COVID-19 ha messo in discussione tutte le nostre certezze, in primis quelle relative alla salute, “NEL CUORE DELLO SPORT” incontra telefonicamente MassimilianoAndreani, Maestro di karate goju ryu di Okinawa e istruttore di sport chanbara, spadagiapponese e kobudo. Ho un legame particolare con Massimiliano, perché siamo coscritti e siamo stati compagni di classe alle scuole elementari “Giuseppe Mazzini” di Legnano. Ritrovarci dopo anni è sicuramente un piacevole tuffo nel passato ma soprattutto, ed è ciò che più conta, un interessante confronto nel presente.

Ciao Massimiliano, sono davvero felice di incontrarti, seppur virtualmente. Questo Covid-19 ci costringe a restare a casa ma, un po’ attraverso i social, un po’ attraverso il telefono come ora, possiamo rimanere in contatto. Partiamo subito con la domanda principale, visto che personalmente so solo che insegni arti marziali ma dietro questa parola esiste un universo: che “sport” pratichi e insegni?
“Il piacere è mio! Dunque, io insegno arti marziali, nello specifico ora insegno Karate Goju-ryu di Okinawa che è la forma più antica e classica da cui poi nasce il karate più diffuso; insegno Kobudo, ovvero il combattimento con le armi “bianche” di Okinawa, che erano quelle reclutate al momento, ad esempio bastoni o armi agricole, presenti nell’isola; poi insegno l’arte della spada giapponese, Kenjutsu, a cui si collega lo sport chanbara che si applica con spade in softair ed è quindi la pratica più sportiva delle armi giapponesi. Quindi in linea di massima posso dire che insegno arti marziali per la forma agonistica (anche se in parte ridotta) e quella che invece conduce alla “via del guerriero”, ovvero un percorso di crescita più ampio che non include solo l’allenamento fisico ed è rivolto sia agli adulti che ai bambini.”

Interessante vedere le varie ramificazioni che l’arte marziale può avere. Quando eravamo bambini ricordo bene la tua passione, già ai tempi delle nostre elementari insieme, per le arti marziali. Ricordo il tuo desiderio di impararle ma credo che tra il semplice desiderio e la pratica vi sia stato un percorso specifico e impegnativo. Ne vuoi parlare ai lettori di Sport Legnano?
“Ricordi bene, Fabrizio! Diciamo che l’oriente, le arti marziali e specialmente la spada mi hanno sempre affascinato. Probabilmente aiutato dalla passione di mio padre e mio zio per i romanzi di oriente, a 11 anni iniziai la mia apertura verso quel mondo misterioso leggendo il romanzo di Musashi, Il libro dei 5 anelli, (Miyamoto Musashi fu lo spadaccino più famoso del Giappone). Da lì intrapresi lo studio del karate, di certo il mio primo amore orientale, il quale ha avuto il merito di cementare ancora di più la mia passione per quelle discipline che, via via nel tempo, iniziai a studiare e praticare: prima il Kobudo, poi la spada, dopo chanbara e infine il contact per uniformare tutto quanto fino a quel momento appreso.”

Mi fa piacere che sia stato un romanzo ad accendere la tua fiamma! Da quanto dici, però, più che sport io leggo una forma di disciplina: è corretto?
“Assolutamente sì. A prescindere dal tipo di arte marziale che si scelga, quando si intraprende un processo del genere si può parlare, a ragione, di un percorso di crescita sia fisica che psicologica. Ci sono bambini di 6 anni, ragazzi di 16 o adulti ben più grandi d’età che iniziano e, proprio per la definizione corretta di disciplina, si formano e migliorano nel corso degli anni. L’aspetto sportivo, in questo caso, è solo una parentesi nella vita del praticante che, finchè le forze lo reggeranno, potrà sempre migliorarsi e, appunto, disciplinarsi nella sua arte marziale. È bello vedere come cresce la passione nel tempo; vi è una parte olistica, una fisica ed una culturale che crescono a braccetto nel praticante e, per chi è interessato e vista l’enorme varietà di proposte, ci si può dedicare davvero “anima e corpo”.”

È proprio questa “cultura alla disciplina” l’aspetto che più mi affascina; me ne accorgo anche nell’ambito della mia professione che, per quanto non sia sportiva o agonistica, necessita di una formazione e di una disciplina che solo nel corso degli anni ti porta a crescere e a renderti conto del progresso personale raggiunto. A riguardo ti chiedo, Massimiliano: cosa cerchi di trasmettere ai tuoi allievi?
“Questa è una domanda difficile, Fabrizio, perché la risposta può cambiare in base alla maturità di un insegnante e a seconda dell’allievo che si ha di fronte. Partiamo dall’origine del nome che abbiamo scelto per la nostra scuola, ovvero SHOREI SHOBUKAN, che letteralmente significa “Scuola del rispetto e delle buone maniere attraverso le arti marziali”; per buone maniere intendiamo il termine “Reigi”, ovvero buon comportamento, codice di condotta, etichetta, perché in un dojo (ovvero il luogo dove si pratica la via) vi sono delle regole da rispettare (dojo kun), innanzitutto dimostrando di essere cortesi e umili, imparando la pazienza e lo spirito pacifico, lavorando per diventare sempre una persona migliore. Ecco che il karate o, meglio, i principi del karate possono applicarsi in ogni aspetto della vita quotidiana e il mero campo agonistico si riduce per ottenere una visione più ampia della disciplina marziale. La parte morale e culturale è dunque quella più importante, a mio avviso, quando si varca la soglia di un dojo anche se resta fondamentale, come ci insegna la Vita, l’equilibrio: in questo caso l’intensa pratica deve abbracciare anche la teoria, come ci ricorda il famoso detto latino “Mens sana in corpore sano” o la frase giapponese che io amo particolarmente “Bun bu ryo do”, letteralmente “il pennello e la spada sono una cosa sola”, che sta a indicare l’importanza di unire la parte mentale, culturale e filosofica a quella più fisica. Ecco, a parer mio, il nocciolo di quella che definiamo disciplina.”

Da quanto so, questa forma di disciplina ti è stata utile in un momento particolare della tua vita, quando hai dovuto affrontare una situazione difficile che ha messo a repentaglio la tua salute e il tuo fisico. Te la senti di parlarne? Potrebbe essere utile per i nostri lettori carpire dalla tua esperienza il vero significato di quell’equilibrio a cui ti riferisci…
“Volentieri. Nel 2016, pensando di aver un principio di ernia inguinale scoprii invece attraverso un’ecografia, e successivamente dalla diagnosi dell’Istituto dei tumori, di avere un mesotelioma peritoneale maligno. Sono stato ovviamente operato: i miei addominali sono stati tagliati, sono rimasto un mese in ospedale intubato, perdendo peso e tono muscolare, ma con una gran voglia di tornare in dojo a praticare! Il 5 gennaio uscii dall’ospedale e, tre giorni dopo, ero a visionare gli allenamenti, chiaramente fermo. Una settimana dopo, però, iniziai a fare piccoli movimenti e insegnare nel limite delle mie possibilità fisiche. Non penso che questa malattia, per quanto aggressiva, abbia cambiato il mio modo di intendere il karate; è cambiata, però, la mia percezione di quello che siamo. Mi spiego meglio: ho riscontrato sulla mia pelle che ciò che siamo, come corpo e come forza, può cambiare letteralmente da un momento all’altro; quindi dobbiamo sfruttare al massimo il privilegio che abbiamo di essere in salute, quando questa ci è ancora disponibile, e di preservarla ogni volta che ne abbiamo la possibilità.”

Hai vissuto un’esperienza davvero intensa e quella forma di equilibrio a cui accennavi è evidente dall’insegnamento personale che ne hai voluto trarre. Allargando il raggio d’azione, ed entrando nel cuore dello sport, che lezione credi si possa insegnare agli altri, inclusi i tuoi allievi?
“Ho provato sulla mia pelle che avere una limitazione non significa necessariamente aver concluso un percorso; forse sarà necessario intraprenderlo con energie diverse, con maggiore attenzione, ma una limitazione ci mette di fronte alla possibilità di allenarci e disciplinarci su altri fronti. Ho un danno al braccio? Allenerò la mia mobilità articolare, le mie posizioni! Ho un danno alle gambe? Allora allenerò le mie tecniche di braccia! Parlando ad esempio della difficoltà da me incontrata, lavorerò meglio sulla respirazione! Il concetto che voglio esprimere è che una menomazione (ovviamente non eccessiva, ben si intende, ma anche importante) non può essere una scusa per rinunciare a ciò che ami. Diversamente, ciò che dicevi di amare… non lo amavi abbastanza. Ricordo l’esperienza di un insegnante giapponese di arti marziali, molto forte anche agonisticamente, che a causa di un incidente d’auto rimase sulla sedia a rotelle. Quell’uomo scoprì che, a questa nuova altezza, riusciva a insegnare meglio ai bambini e quindi dedicò poi la sua nuova vita all’insegnamento ai bimbi. Ecco cosa significa, per me, trarre qualcosa di positivo da un evento negativo.”

Ritengo sia un grande insegnamento anche per i più giovani, non credi?
“Certo. Noi usiamo un termine, “Muchimi di”, che significa “mani appiccicose”: attraverso queste sviluppiamo la sensibilità e in quel modo scopriamo come lavorare sulla forza e sui punti d’attaccare nell’avversario. Un insegnante dovrebbe sviluppare questa sensibilità oltre il semplice tatto; allora quel termine si tramuterebbe anche in una specie di empatia in grado di aiutare a comprendere di cosa abbia più bisogno un allievo, perché spesso quello di cui ha bisogno non è necessariamente ciò che l’allievo desidera. È una questione di onestà interiore che riguarda entrambi, insegnante e allievo. C’è una frase che diciamo sempre prima di iniziare una lezione: entrambi, maestro e allievo, si salutano dicendo “Onegaeshimasu” che in giapponese significa “per cortesia insegnami”; non è una semplice frase di formalità, per indicare che tutti e due vogliono imparare qualcosa dall’altro, ma è un contratto, una volontà di apprendere. Ecco, allora, che il maestro si impegna a capire chi è e cosa vuole l’allievo; d’altro canto l’allievo si impegna a capire quello che il maestro sta donando. Senza questo dare-avere, che è poi un altro insegnamento di Vita, staremo solo perdendo tempo entrambi. Non è solo una trasmissione di tecniche: l’arte marziale è qualcosa di più profondo.”
Grazie, Massimiliano. Mi hai impartito una lezione che va aldilà dell’approccio sportivo o tecnico. Ho toccato con un dito cosa significa essere davvero nel cuore dello sport. Quando, alle scuole elementari, tu sognavi di praticare le arti marziali ed io sognavo di scrivere romanzi forse non immaginavamo di incontrarci un giorno con questi sogni avverati e con tanta disciplina, ancora, da imparare. Che questa intervista ci ricordi, allora, di chiedere sempre alla Vita “Onegaeshimasu”: per cortesia, insegnami.
Fabrizio J. Fustinoni
(foto di Massimiliano Andreani: Valeria Beltrami Photo)