“Nel cuore dello sport”, Fabrizio J. Fustinoni incontra Sergio Fiorenzano

Terzo appuntamento con lo scrittore legnanese Fabrizio J. Fustinoni, per conoscere il lato più umano dello sport
LEGNANO – Eccoci al terzo appuntamento di “Nel cuore dello sport“, con lo scrittore legnanese Fabrizio J. Fustinoni che questa una volta accompagna i lettori di Sport Legnano a conoscere la storia di Sergio Fiorenzano, “un atleta ad ampio raggio“.
Un’altra storia emozionante, oltre l’agonismo e la competizione, che ci porta alla scoperta di un pianeta privato fatto di esperienze spesso drammatiche e dolorose che sono state affrontate e superate proprio attraverso il potere e la forza d’animo che solo lo sport può regalare, e che ci porterà a scoprire il lato più intimo dello sport preferito dei personaggi che ogni mese incontreremo: la Vita.
“NEL CUORE DELLO SPORT” oggi incontra Sergio Fiorenzano, un atleta ad ampio raggio – tra poco scoprirete perché – che incarna alla perfezione il senso del titolo di questa rubrica. Intervistarlo è stato un vero viaggio emozionale, una montagna russa di adrenalina con un epilogo davvero carico di speranza. Che ne dite, vogliamo scoprire come batte il cuore di un vero sportivo?
Ciao Sergio, possiamo dire che non hai perso tempo con lo sport!
“Sì, ho iniziato presto ma credo come diversi ragazzi. Il mio approccio allo sport è stato con il gioco del calcio, dagli otto ai quattordici anni, prima all’URI, poi all’ENOTRIA per approdare infine alla SELEZIONE RAPPRESENTATIVA delle squadre non professionistiche di Milano. Ricoprivo il ruolo di libero o difensore centrale, anche se oggi queste definizioni di ruolo risultano un po’ anacronistiche! Diciamo che le prime esperienze con lo sport sono state tranquille, almeno fino all’incidente.”

Vorrei mi raccontassi di quell’incidente, se te la senti, perché rappresenta il punto di svolta della tua vita.
“In effetti lo è stato su diversi fronti. Avevo 19 anni, stavo guidando di notte per rientrare a casa dopo una partita di calcio tra amici quando, nei pressi di Ivrea, a causa di un malore, esco di strada finendo in un dirupo e sbalzando fuori dal veicolo. Il femore mi “esplode” – espressione usata proprio dai medici! – perché l’auto, per fortuna gli pneumatici se no oggi sarei senza una gamba, mi plana addosso. Probabilmente devo ringraziare la robustezza delle mie gambe (ai tempi facevo 360kg di pressa) che ha scongiurato il peggio, anche se non uscii dal quell’incidente indenne…”

Da quanto mi hai accennato prima dell’intervista, porti tutt’oggi i segni di quella notte. Mi hai mostrato cicatrici infinite sul tuo corpo!
“Assolutamente sì. A parte varie fratture, il femore si era completamente disintegrato e questo mi ha costretto a subire sei operazioni in quattro anni, durante i quali ho dovuto camminare con le stampelle. Ancora adesso porto due protesi, una endomidollare oltre ad una placca esterna al femore, e diciassette viti in una gamba.”

Quindi possiamo dire che la tua passione per lo sport finisce lì, giusto? Sorrido alla domanda, perché conosco già la risposta. Anzi, infierisco ancora un po’, Sergio: è vero che molti ti definisco “pazzo”? Perché?
“No, no, non sono assolutamente pazzo. Ho semplicemente deciso di rialzarmi da quel famoso incidente più forte di prima e di iniziare nuove avventure sportive. L’ho fatto per me, per il mio equilibrio mentale, per dare una svegliata al mio corpo obbligato al riposo per quattro lunghi anni.”

Quindi, in cosa vi cimentate tu, il tuo femore, la tua gamba e la tua spalla dopo quattro anni di riabilitazione?
“(ride) Dunque, in ordine cronologico senza soffermarmi sull’allenamento svolto prima di arrivare a questi risultati: ho fatto parte della NAZIONALE ITALIANA di canoa polinesiana, partecipando a due mondiali (nel 2006 in Nuova Zelanda e nel 2008 a Sacramento, California) e con la Nazionale Italiana di “DRAGON BOAT” abbiamo vinto nel 2012 a Milano l’argento iridato. Poi ho partecipato a 4 SAHARA MARATHON. Ho gareggiato a diversi gare di gran fondo in bici, vincendone una (la “Fabio Casartelli” nel 2013). Sono stato il primo italiano a partecipare alla HAWAIKI NUI compiendo tutte e tre le tappe, la gara di canoa più dura e lunga del mondo che ha luogo a Tahiti (140 km in tre tappe). Per un periodo mi sono appassionato alla motonautica, svolgendo diverse gare, per poi decidere di percorrere 550km in Corsica con una moto d’acqua in 8 ore e mezza, in totale autonomia e senza aiuti esterni.”

Ok, confermo che sei un pazzo…
“Allora passiamo alla montagna, adesso. Ho fatto spedizioni in Kilimanjaro (Africa), Elbrus (cima più alta della Russia), Aconcagua (Argentina), Denali (cima più alta del Nord America), poi Nepal, Perù, Ecuador, anche se la mia soddisfazione rimane quella di aver aperto sei vie, insieme ad un mito dell’alpinismo nonché amico Ezio Marlier, sul Monte Bianco. Ho infine scalato una ventina di “4000mt” in solitaria, ovviamente Monte Bianco compreso.”
Mi vergogno a dirlo, Sergio, ma sarò stanco semplicemente a scrivere tutte le tue imprese, figurarsi a svolgerle come hai fatto tu! Detto questo, però, ora sono interessato alla vera svolta della tua vita, al tuo Cuore nello Sport. Me ne vuoi parlare?
“Volentieri. È successo nel 2012, in occasione della prima Sahara Marathon a cui partecipai. Mi trovavo in Algeria e ciò che vidi mi lasciò un segno indelebile e iniziai a pensare a cosa avrei potuto fare per aiutare in piccola parte quel popolo, nello specifico mi riferisco ai campi profughi SAHAWI. Il primo impatto fu così forte che tuttora, a discuterne con te, ho i brividi. Stiamo parlando di duecentomila persone che vivono in accampamenti, tra case di terra e tende, in mezzo al nulla e senza nessuna possibilità di futuro se non la fuga. All’epoca lavoravo presso il carcere di Bollate per un progetto sportivo dedicato ai carcerati, una riabilitazione attraverso l’allenamento sportivo. Vedendo un villaggio in quei campi profughi algerini – il villaggio di SMARA – ebbi un’idea: perché non trasferire la mia esperienza, come in quel carcere, anche in un villaggio senza speranza? Perché non usare lo sport come impatto emozionale per permettere ai bambini e ai ragazzi di quei villaggi di allenarsi e credere di più nelle loro potenzialità? Così iniziai il progetto sportivo per il quale lavoro gran parte del mio tempo, anche se non mi sembra di fare mai abbastanza.”

Mi impressiona vedere come ne parli, con una luce negli occhi bellissima. Parlami del progetto, dei suoi aspetti pratici, di cosa hai fatto concretamente per quei bambini.
“Certo, ogni volta che vedo i miei bimbi sorridere e impegnarsi a fondo mi emoziono, lo ammetto. Dunque ho creato un team di collaboratori – attualmente sono undici ma aumentano ogni anno – escludendo me che comunque raggiungo il villaggio almeno quattro o cinque volte l’anno. Alleniamo i bambini per tutto il periodo scolastico (da settembre a maggio), sei giorni su sette, ogni pomeriggio. Ho creato tre scuole di sport, costruite da zero, che sono seguite da un maestro e quattro ragazzi del posto stipendiati, oltre a tre guardiani. Abbiamo anche tre cuoche, perché oltre agli allenamenti i miei bimbi meritano un pasto completo (ciò che mi aveva impressionato era vederli arrivare agli allenamenti a digiuno…). Ho voluto aggiungere due dottori che monitorano i miei bimbi per eventuali problemi medici, visto che sono all’ordine del giorno in un ambiente del genere.”

Sai cosa mi colpisce più di ogni cosa che hai descritto? Il fatto che tu chiami “i miei bimbi” tutti i bambini a cui ti riferisci. È questo, secondo me, il senso di tutto ciò che i nostri lettori percepiranno. Sei soddisfatto di questi “tuoi bimbi”?
“Moltissimo, Fabrizio. Si impegnano con una tenacia che lascia interdetti. Hanno sempre il sorriso sulle labbra e, se vogliamo parlare in modo tecnico, molti di loro sarebbero pronti persino all’agonismo. Gran parte dell’allenamento avviene attraverso la boxe, una disciplina che sviluppa corpo e mente e che permette a tutti loro di sfogare al sacco ciò che tengono dentro. I risultati ci stanno dando ragione e questa è la mia vittoria più grande. Tra l’altro puoi monitorare tutto ciò nel mio sito www.resistiryvencer.org”

So che non hai interrotto le tue imprese sportive personali, nel frattempo. Se no, che pazzo saresti?
“Haahah, ma no che non sono pazzo! Comunque è vero, non ho interrotto, resto nel mondo dell’alpinismo. Verso aprile/maggio farò una spedizione ad Ama Dablam (Himalaya, 6.800mt) per poi concentrarmi sull’apertura di nuove vie sul Monte Bianco, esperienza che ritengo fisica e spirituale perché fa scoprire sempre qualcosa di nuovo fuori e dentro di me.”

Dopo questa intervista prometto di guardare le cartine di tutte le catene montuose che hai scalato! Per quanto riguarda, invece, “i tuoi bimbi”: ci sono nuovi progetti in corso?
“Certamente. Adesso stiamo ultimando la terza scuola, sarà pronta a breve, e a primavera inauguriamo la prima palestra di arrampicata. I miei bimbi devono imparare a vedere la vita anche da un punto di vista più alto…”
Oggi mi hai mostrato, con assoluta praticità, che lo sport può avere un cuore differente ma che batte all’unisono quando lo scopo è nobile. Ti pongo una domanda intima, Sergio: cosa ti spinge a fare tutto questo?
“Sai, Fabrizio, c’è l’ultima strofa di una poesia di Pier Paolo Pasolini – si intitola “A un papa” – in cui si legge: “Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te”. Se potendo fare del bene a questi ragazzi sfortunati io non lo avessi fatto, come mi sarei dovuto definire?”
Ho di fronte a me un ragazzo di 37 anni, un omone tutto muscoli che ha scoperto il vero battito. Mi piace pensare che, dietro un corpo scolpito negli esercizi sportivi, magari a migliaia di metri di altezza mentre si arrampica e traccia nuove vie montuose, lui sappia perfettamente che nel Cuore dello Sport la strada è semplice ed è già tracciata. Che lui e “i suoi bimbi” possano, dunque, continuare in questa ricerca.
FJF